venerdì 29 marzo 2024

Il problema dei tre corpi, o della finitezza dell'esperienza umana


La visione degli otto episodi di quella che si può ragionevolmente ritenere la prima stagione de Il problema dei tre corpi, in Italia su Netflix dal 21 marzo 2024, offre lo spunto per una riflessione non banale sulla finitezza dell'esperienza umana, posta in relazione ai fenomeni che la travalicano temporalmente.

Nella serie si pone il problema di prepararsi ad un evento di portata planetaria che si verificherà solo tra qualche secolo, quando tutti gli attuali abitanti della Terra e i loro discendenti per una decina di generazioni saranno morti.

Perché un essere umano della prima metà del XXI secolo dovrebbe farsi carico di ciò che succederà al genere umano in un futuro tanto lontano? La risposta non è banale; all'illustre economista J. M. Keynes è attribuita la frase "nel lungo periodo siamo tutti morti" e come dargli torto? Per non cadere nella facile tentazione di vederci la metafora del degrado ambientale o dell'olocausto nucleare, come in Don't look up del 2021 di Adam McKay, occorre specificare che l'evento in questione è più esplosivo del primo e più certo del secondo e di conseguenza non si tratta semplicemente di acquisire un maggiore livello di responsabilità nei comportamenti personali e politici, ma di dedicare la propria vita a prepararsi all'evento e soprattutto di trovare le persone che proseguiranno ad occuparsene con il medesimo impegno dopo la propria morte, per molte generazioni. Se la ricerca delle motivazioni può essere destinata a restare infruttuosa, non altrettanto può essere l'indagine sulle modalità con cui attuare questo intento, che ha nell'attore il primo interessato.

Se semplificando riconducessimo la questione al piano della comunicazione, la missione da compiere sarebbe il messaggio che deve giungere dalla generazione attuale mittente alle generazioni future riceventi attraverso un canale idoneo.

Si pone da una parte quindi la necessità della codifica del messaggio e dall'altra la creazione delle condizioni materiali per la sua trasmissione efficace nel tempo attraverso le generazioni, le cui modalità devono essere a loro volta integrate nel messaggio al fine della loro perpetuazione.

Il celebre banana experiment del 1967 di di Gordon R. Stephenson fornisce una prima indicazione di una delle possibili modalità con cui si può ottenere la creazione delle condizioni materiali per il mantenimento di determinati comportamenti nelle generazioni seguenti.

L'esperimento inizia con delle scimmie in una gabbia dove pende appesa una banana; ogni volta che una scimmia prova a prendere la banana, tutte le scimmie ricevono un getto di acqua fredda, per cui i successivi tentativi di prendere la banana vengono violentemente repressi dalle altre scimmie per paura dell'acqua. L'esperimento prosegue con la progressiva sostituzione delle prime scimmie con nuove scimmie cui viene impedito dalle altre di prendere la banana, sino alla totale sostituzione di tutte le scimmie che avevano fatto esperienza dell'acqua fredda con scimmie che avevano imparato la regola e continuavano ad applicarla in forma di tabù senza conoscere il motivo per cui non si doveva toccare la banana.

Da questo esperimento si riceve la prima indicazione che il messaggero, come di solito accade, può non avere conoscenza del contenuto del messaggio, delle sue motivazioni o delle finalità per cui è stato codificato e spedito, ma limitarsi semplicemente a recapitarlo. Nel caso di una missione complessa, che prevede una articolata serie di attività da svolgere a scadenze programmate su un vasto arco temporale è necessario che alcuni conoscano e capiscano maggiori frazioni del messaggio e in generale si può ipotizzare una sua diffusione decrescente dal centro alla periferia dell'organizzazione.

Si può ipotizzare una organizzazione dove la periferia meno a conoscenza del messaggio e impiegata nella realizzazione e mantenimento delle condizioni materiali sia molto simile alle scimmie di Stephenson, benché il livello di complessità organizzativa possa raggiungere alti livelli di elaborazione, e un centro di individui selezionati che, nella misura stabilita che fa parte anch'essa della codifica, ha accesso al messaggio, ne conosce origine e finalità e ne cura la conservazione e l'attuazione.

Nella misura in cui il messaggio, come nel caso in questione, abbia una forte componente materiale, un evento di portata planetaria, diventa indispensabile che la periferia assuma proporzioni importanti, quindi sia necessario il coinvolgimento di un gran numero di persone ignare delle reali motivazioni del loro coinvolgimento ma soggette ad una regola funzionale agli scopi ultimi, dando luogo ad un fenomeno di massa.

Nel caso in cui il messaggio abbia forma principalmente immateriale, la periferia può essere molto ridotta o non esistere affatto, il fenomeno riducendosi ad una élite di individui selezionati, che traggono dall'accesso al messaggio, oltre che le motivazioni a perpetuarne la conservazione anche i vantaggi materiali necessari.

In un caso e nell'altro i vantaggi materiali possono assumere un'importanza crescente e finire per sostituire i messaggio o semplicemente perpetuarsi anche dopo la sua definitiva perdita.

Questa analisi offre la possibilità di leggere le formazioni sociali a cui l'umanità ha dato luogo in relazione al modo in cui si perpetuano.

Le religioni e le ideologie di massa, ma anche le forme geopolitiche appartengono certamente al primo tipo: una gran massa di soggetti, che di volta in volta assumono il nome di fedeli, seguaci, sudditi o cittadini, assoggettate ad una regola e ad una élite, senza accesso alle informazioni reali e complete.

Le sette esoteriche, le massonerie, le società segrete, il monachesimo ascetico appartengono al secondo tipo.

IN nessun caso ci è dato di sapere se il messaggio originalmente contenuto in ognuna di esse si sia conservato e si perpetuino per semplice mantenimento del potere.

martedì 29 agosto 2023

Asimmetrie nella PMA

La Corte Costituzionale decide che la donna puó procedere all'impianto dell'embrione anche contro il parere dell'uomo.
La sentenza poggia su tre considerazioni.
La prima è che il coinvolgimento psicofisico ed emotivo della donna è molto maggiore di quello dell'uomo e quindi le va riconosciuta una primazia.
La seconda è che il diritto a nascere dell'embrione prevale sul diritto dell'uomo di cambiare idea.
La terza è che l'uomo aveva prestato uno specifico consenso informato circa l'impossibilità di revocare il consenso anche in presenza della possibilità di criocongelamento che consente l'impianto anche dopo molti anni dalla fecondazione.
Personalmente trovo molto condivisibile la seconda, meno le altre due.

La evidente asimmetria del ragionamento sta nel fatto che la tutela del diritto alla vita dell'embrione prevale sul diritto all'autodeterminazione dell'uomo ma soccombe di fronte al diritto all'autodeterminazione della donna.

Questa marcata diversità di trattamento già opera nell'interruzione di gravidanza, laddove però il coinvolgimento psicofisico della donna si concretizza nella prosecuzione di una gravidanza già in essere e l'esercizio del diritto è teso ad evitare che si realizzi.
Nel caso dell'impianto invece l'esercizio del diritto è teso a consentire che la gravidanza si avvii, quindi non vi è alcuna esigenza di evitare il coinvolgimento psicofisico della donna.
La sentenza infatti, non senza qualche opacità, parla del disagio subito dalla donna per il prelievo degli ovuli, in relazione al meno invasivo prelievo dello sperma dell'uomo.

Non rileva a mio parere quanto effettivamente sia più invasivo il prelievo degli ovuli rispetto a quello dello sperma, ma se il coinvolgimento psicofisico che comporta sia paragonabile a quello di una gravidanza indesiderata, che è il motivo per cui il diritto a nascere dell'embrione soccombe rispetto al diritto di autodeterminazione della donna.

La prioritaria tutela della salute della donna la si vorrebbe attuare in relazione ad un trattamento che per quanto invasivo non può essere paragonato a gravidanza, parto e puerperio e a posteriori, a sostegno del diritto di procedere all'impianto contro il parere del padre.
Non mi pare una logica ferrea. 

lunedì 8 marzo 2021

Ancora sui sinonimi di "donna"

Pregiatissima Dott.ssa Valeria Della Valle,

la ringrazio innanzitutto per aver prontamente e in modo qualificato reso disponibile il punto di vista del prestigioso Istituto cui lei appartiene sulla questione dei sinonimi di "donna".
Quando è fatto oggetto di critiche uno dei pilastri portanti della lingua e della cultura italiana, in qualche modo ci dovremmo sentire, perlomeno così io mi sento, meno saldi nelle nostre certezze linguistiche anche noi.
Ho trovato preziosa e non superflua la sua doverosa precisazione sulla distinzione tra dizionari d'uso e dizionari dei sinonimi e contrari.
Ho trovato metodologicamente corretta la rivendicazione dello spazio anche per le "espressioni più detestabili e superate" per registrare ciò che la lingua è ed è stata, e non quella che vorremmo che fosse.
Proprio per l'autorevolezza dello strumento di cui parliamo e per la conseguente necessità che la registrazione sia quanto più completa e fedele, mi permetto di evidenziare che, nella definizione dei sinonimi e contrari del vocabolo "donna" da voi proposta, la locuzione "buona donna" è equiparata a "donna di marciapiede" e simili quali eufemismi per "donna che esercita la prostituzione o che è giudicata simile alle prostitute". La trattazione appare perlomeno carente, in ragione del fatto che altri dizionari giustamente registrano anche il significato non eufemistico di "buona donna" quale donna di buon animo e compassionevole, e tenuto conto che è nella locuzione "figlio di buona donna", e solo in questa, che si realizza l'inversione eufemistica.
Una donna straniera che leggesse solo questo dizionario e si sentisse appellare con "buona donna" potrebbe malamente fraintendere una cortese richiesta di informazioni del passante occasionale; io stesso, leggendo il relativo passo ho provato fastidio a prendere atto che per il Dizionario dei sinonimi e contrari Treccani "buona donna" è sinonimo di "bagascia".
Pur essendo io un solo uomo e non un centinaio di donne rispettabili e illustri, le chiedo di sottoporre il passo ad un supplemento di analisi per verificare se il testo si presti ad interpretazioni non corrette e non volute e cercare eventualmente una formulazione più tutelante per tutti, in primis per la nostra amata lingua italiana.

Con gratitudine.

Ugolino Stramini

venerdì 30 agosto 2019

IL PIANO ''UGOLINO'' PER L'IMMIGRAZIONE

(lunga premessa in coda)

L'immigrato lavora in Italia ma resta soggetto al diritto del lavoro e alla retribuzione del Paese di origine, come se fosse stato assunto e lavorasse lì. Stessi diritti e stessa paga. Potremmo considerarlo un modo di aiutarli a casa loro senza doverci andare davvero.
Oppure un modo di delocalizzare senza spostare neanche un cacciavite. Delocalizzare il lavoratore invece che l'azienda.
Le imprese ne guadagnano in competitività e l'aumento del PIL rallegra anche l'Erario, con più fondi per finanziare il pubblico impiego, lo sviluppo e lo stato sociale.
L'immigrato ci guadagna un lavoro regolare, la permanenza legittima in un paese straniero con le tutele dello stato di diritto, e la prospettiva di mutare negli anni il suo status da immigrato delocalizato a straniero residente, sino a cittadino con pieno godimento dei diritti sociali e politici.
Il contratto può essere sottoscritto ovunque, nel paese di origine o nei Centri di Identificazione ed Espulsione ovunque situati, con la precisa indicazione della nazionalità del lavoratore, e costituisce titolo di soggiorno per la sua intera durata.

La premessa lunga.

Una delle obiezioni ricorrenti dei sostenitori dei porti chiusi, che, a differenza delle altre, è difficile tacciare di ignoranza e razzismo, è: cosa li mettiamo a fare questi immigrati dopo averli accolti tutti.
Tralascio le puntualizzazioni relative all'irrilevanza numerica del fenomeno percepito come una invasione, una sostituzione etnica, una islamizzazione, sulle quali hanno marciato e ancora marciano i sovranisti.
Accogliere un rilevante numero di immigrati in età da lavoro senza avere una domanda capace di assorbirlo significa condannare queste persone alla marginalità, alla povertà, all'illegalità, dato che qualcosa dovranno pur fare per mangiare tutti i giorni.
Lavoro ce ne è davvero poco e non è privo di senso affermare che gli immigrati in cerca di lavoro concorrono con i cittadini disoccupati per i pochi posti di lavoro regolare disponibili e anche per quelli irregolari.
In ogni caso, l'eccesso di offerta comporta automaticamente una svalutazione del lavoro, a danno soprattutto dei cittadini, che hanno delle aspettative superiori a quelle degli immigrati e minore propensione al sacrificio e al compromesso, dato che mentre per uno lo spettro è il reddito di cittadinanza, per l'altro è il rimpatrio forzato, per quanto remoto.

Il vero nodo dell'intera questione migratoria sta nell'ipocrita pretesa dell'universalità dei diritti dell'uomo, culmine del pensiero cattolico-liberale del mondo occidentale, ma vuota dichiarazione di intenti di fronte a miliardi di persone nel mondo oggi che non se li vedono riconosciuti e che si sentirebbero offesi a scoprire che esiste un tale concetto.
Il vero nodo è il "fallimento dei diritti presociali" per dirla con le parole del Prof. Persio Tincani, ovvero la idealistica pretesa di affermare che ogni essere umano al mondo abbia gli stessi diritti, senza minimamente porsi il problema di chi debba garantire l'effettività di questi diritti.
Dov'è il diritto alla vita di un naufrago da solo in mezzo al mare? Dove è il diritto alla salute di una donna che muore di parto in Ruanda senza nessuna assistenza? Dove è il diritto al nome di un morto nelle fosse comuni nei Balcani?
I diritti esistono in quanto effettivi solo come beneficio dell'appartenenza ad un gruppo di individui che li riconoscono e adottano strumenti per renderli effettivi; individui che in forza di un patto sociale rinunciano alla legge del più forte e alla vendetta in cambio di protezione reciproca.
Pensare che dalla protezione reciproca degli aderenti si possa e si debba passare all'affermazione dell'universalità di quei diritti, senza avere minimamente le risorse per farlo e l'accordo dell'universalità degli individui è un sogno che ci portiamo appresso dall'epoca dei lumi, nel quale rischiamo di restare imprigionati nel momento in cui la miseria e le disgrazie del mondo ci si presentano nelle loro dimensioni con la mano tesa, in un primo momento, alzata forse in seguito.
La religione cristiana, a volerla leggere per ciò che è scritto, risolve il problema, imponendo di vendere tutto ciò che si possiede e darlo ai poveri, dato che per i ricchi non c'è posto nel regno dei cieli. Particolarmente riuscita la trasposizione cinematografica di questo concetto nel film Cuore Sacro di Ozpetek, dove la protagonista si spoglia letteralmente nuda e dona tutto ciò che ha indosso ai mendicanti della stazione, per poi dedicarsi interamente alla cura dei bisognosi senza risparmio.

Arrivando al tema dell'immigrazione, pensare di riconoscere a chiunque metta piede sul nostro suolo la totalità dei diritti umani, civili, sociali e politici di cui non godeva nel suo paese di origine è una nobile idea, ma nella sua impossibilità è quella che ha prodotto il congelamento dei visti dai paesi poveri, i respingimenti in mare, la chiusura dei porti e tutto quanto forma la nostra attualità.
Che fa dire, giustamente a quelli di prima "dove li mettiamo?", meglio respingerli.
Come nella gag di Aldo Giovanni e Giacomo dove Aldo, non avendo gli spiccioli per la mancia, è costretto a sparare al cameriere per non fare brutta figura.

Destrutturare la velleitaria e ipocrita pretesa dell'universalità dei diritti a vantaggio di un nuovo approccio di pragmatiche e progressive aperture potrebbe rappresentare una possibile direzione in cui avanzare.
La proposta di delocalizzare i lavoratori vuole essere intesa in questo senso; non ti posso dare tutto quello che vorrei, ma se ti accontenti e pazienti puoi avere un futuro qui con noi.

sabato 16 marzo 2019

La fine dei giorni

Mi ritrovo a constatare, dopo quasi tre lustri di blogosfera, che non ho mai scritto di prostituzione.
Il motivo non ho difficoltà ad individuarlo.
Essermi rinchiuso in una sorta di bolla, con sempre meno interlocutori sempre più selezionati, dove vige una sorta di convenzione liberale, ha reso superfluo, pleonastico, parlare di prostituzione.
La pratica volontaria della stessa, come la scelta di acquistare i servizi di una persona che si prostituisce, rientrano nell'esercizio di quella autodeterminazione che è cardine del pensiero liberale.
Ciò che due o più persone adulte decidono di scambiarsi non è cosa che possa riguardare altri, a meno che non arrechi loro danno o fastidio grave.
Sul proprio corpo, sulla propria mente, l'individuo è sovrano.
Se non c'è vittima non c'è reato.
Sul concetto di prostituzione non ho naturalmente mai pensato fosse necessario esprimermi.
Rifiutando l'opzione anarchica, a vantaggio di uno stato liberale garante delle libertà dei cittadini, in questo come in altri casi, come stupefacenti e fine vita, la mia posizione è netta a favore della legalizzazione.

La legalizzazione, operata su quella che è una scelta libera e legittima dell'individuo, ha alcune immediate conseguenze.
Prima di tutto garantisce, riconoscendola, la libertà della persona.
In secondo luogo presidia l'esercizio di quella legittima scelta, in modo che siano garantiti i diritti di tutti.
Garantisce inoltre che tutti partecipino secondo le loro possibilità al finanziamento della spesa pubblica.
Sottrae infine le attività legalizzate alla clandestinità, dove non ci sono diritti, non ci sono garanzie, non si pagano tasse e dove per contro si creano vasti spazi per l'esercizio illegale da parte di organizzazioni necessariamente criminali, garantendo a queste ampi margini di guadagno, ancora una volta occulto e quindi esentasse. La contiguità con la criminalità organizzata, imposta dalla mancata legalizzazione, espone i soggetti che, in teoria, esercitano un loro legittimo diritto a rischi penali e personali accessori indotti. Quello che si chiama effetto criminogeno.
La prostituzione è addirittura esempio emblematico di queste situazioni; non posso quindi che dichiararmi assolutamente favorevole alla sua legalizzazione.

Se sul piano giuridico l'argomento può a mio modesto parere ritenersi definito, privo di zone d'ombra, ben'altra cosa è il piano sociale, sociologico e psicologico.
Sul piano sociale, dal lato dell'offerta, ancora una volta allargando il campo d'indagine, il fatto che ci siano dei lavoratori che per la normale esigenza di procurarsi un reddito per vivere debbano sottoporsi a lavori umilianti, degradanti, pericolosi o semplicemente mal retribuiti è un problema reale, di cui lo Stato, nello specifico la Repubblica Italiana, ai sensi della Costituzione, deve farsi carico. Lavori come quelli, oltre un certo limite, diventano incostituzionali.
Oltre un certo limite, nel senso che il lavoro ha intrinsecamente un elemento di disagio per il lavoratore, a cominciare dal fatto che il tempo di lavoro è almeno in parte sottratto al tempo di vita e erosivo del tempo libero e del riposo.
Il lavoro è spesso fatica, ma anche tensione, stress, pericolo, giudizio, subordinazione.
E tutto ciò non lo rende incostituzionale, in quanto insito nel lavoro stesso.
Ancora una volta, ciò che opera al fine del rispetto delle condizioni minime di lavoro è l'azione regolatrice e di garanzia dello Stato, che segue la legalizzazione.

Sul piano sociologico, l'argomento si fa oceanico.
È la questione di genere in una della sue molteplici declinazioni.
L'asimmetria nell'approccio alla sessualità e all'affettività dei generi maschile e femminile, storicamente e culturalmente consolidata, fa sì che la domanda, primaria, sia sostanzialmente, nei numeri, maschile, e l'offerta, secondaria, sia quasi del tutto, sebbene con consistenti variazioni ed eccezioni, femminile.
La prostituzione stessa, ma sopratutto i suoi aspetti più degradati e degradanti, che nessuna legalizzazione da parte di uno stato liberale potrà mai includere, e tutta la violenza di genere, senza possibilità di individuare una precisa linea di demarcazione tra le due, dipende dall'esistenza di una compulsiva domanda maschile.
Esiste, ma numericamente irrilevante, tuttavia rilevabile, anche una domanda femminile e più in generale una variegata domanda non prettamente maschile.
È in questa prospettiva della asimmetria suddetta che si evidenzia un punto nodale da cui partire.
Se fosse il piacere, ed il suo bisogno compulsivo, a generare la domanda, non ci si spiegherebbe tale asimmetria, essendo il piacere sessuale presente in tutti gli esseri umani.
La fisiologia, pur prodiga di spunti, non mi pare un filone capace di offrire sufficienti elementi per giustificare una tale asimmetria.
Più generose di promesse mantenute appaiono l'antropologia, e la Storia, che ci insegnano che i modelli  di civiltà umana, di organizzazione sociale e politica, che nel tempo si sono rivelati capaci di vincere la lotta per la sopravvivenza contro le formazioni rivali e la natura stessa sono quelle violente, patriarcali, maschiliste e misogine.
Qui è il caso di recuperare quell'asimmetria fisiologica enorme, macroscopica, che non va identificata nel piacere, quanto nella riproduzione che quello precede e favorisce.
Nella necessità di controllare ed incanalare la capacità della donna di dare alla luce l'erede, queste società patriarcali hanno elaborato un modello culturale maschilista, dove la donna è inferiore all'uomo, dove il desiderio femminile deve essere impuro, moralmente sconveniente, subordinato alla riproduzione dell'erede.
Il maschio costruisce, combatte, conquista, depreda, sottomette, accumula, solo se ha la presunzione che il suo seme, la sua discendenza certificata, erediterà il suo patrimonio, parola chiave.
L'utero è lo scrigno dove sono riposti i sogni di immortalità del maschio. Il corpo della donna è la sala del tesoro, la cultura maschilista è la guardia armata che veglia sul tesoro, il piacere femminile è il complice che apre la porta dall'interno al ladro che attenta al tesoro.
Si capisce come in alcune culture particolarmente retrograde, l'escissione della clitoride diventi un antifurto necessario. L'eradicazione del male.
Di riflesso, la stessa cultura maschilista necessita di un maschio che al piacere sessuale assomma e sostituisce l'imperativo di dominare la donna, che significa prima di tutto mettere il proprio seme nello scrigno.
Un furore cieco, una coazione a ripetere che nell'esacerbarsi ha finito per perdere di vista l'aspetto procreativo e concentrarsi sulla penetrazione a prescindere dall'oggetto penetrato.

Molti sono nella storia anche antica gli esempi  di superamento di questo schema; è la storia della civiltà, ed in particolare della civiltà occidentale, con le sue radici ellenico-giudaico-cristiane, e il suo culmine che è rappresentato da quel pensiero liberale richiamato all'inizio del discorso.
Il valore sacrale della vita, di cui siamo debitori al cristianesimo, la cui matrice misogina tuttavia ne fa uno delle roccaforti del pensiero maschilista.
Il valore della libertà, frutto maturo dell'umanesimo culminato nelle rivoluzioni sette-ottocentesche, che nella lotta contro gli assolutismi hanno dato l'avvio alla demolizione del patriarcato, perlomeno sul piano politico.
La parità e l'uguaglianza delle persone senza distinzione di genere, di etnia, di religione e convinzioni politiche, che è invece frutto del per altri aspetti tragico novecento.
Nel primo mondo queste sono conquiste giuridiche e culturali oramai consolidate sul piano formale.
Sul piano sostanziale la vita, la libertà ed il rispetto delle fasce deboli della popolazione sono ancora bisognose di cura e tutela.
Altrove - gli esempi abbondano - anche il piano formale paga un notevole ritardo.

Dopo le lotte sindacali per i diritti dei lavoratori, il movimento per i diritti dei neri e per l'indipendenza delle colonie, la liberazione e l'emancipazione della donna, partita con le suffragette, culminò con il movimento per la liberazione sessuale del 1968, poi si arrestò.
Insomma, c’era una grande promessa di felicità all'indomani della rivoluzione sessuale del 1968 e della rivoluzione femminista.
C’era una grande scommessa che ballava sulla pelle del mondo, quella di essere uomini e donne libere. Ma quando come donne abbiamo finito di dire agli uomini tutto quello che in loro non andava, non abbiamo avuto il coraggio di fare lo stesso con noi, e ci siamo rinchiuse nuovamente nell'ipocrisia e nei sensi di colpa che sono le facce con cui il potere, maschile e femminile, da sempre ci imprigiona e determina il nostro stesso vivere.
Avevamo una grande occasione. Avremmo potuto sederci attorno a un tavolo, uomini e donne, per ascoltare come eravamo, per vederci con gli occhi dell’altro e per capire fino in fondo chi eravamo. Confrontando dalle rispettive postazioni le nostre miserie e le nostre paure, gli egoismi e gli slanci avremmo scoperto l’altro.
Avremmo potuto parlare dell’assolutezza del potere materno all'interno delle famiglie, della indispensabile funzione paterna di presa in carico della realtà. Della difficoltà di possedere e poi separarsi da una madre, della difficoltà di crescere quando manca un padre. Della difficoltà di trasformare l’invidia che ogni generazione deve affrontare nella crescita della successiva generazione per offrire un percorso evolutivo nell'esistenza.
Sarebbe stato importante confrontarsi con la fatica della comprensione di come cambiava lo spazio pubblico per gli uomini con l’irruzione delle donne, e come cambiava l’umano, maschile e femminile, se ad essere alterati erano i meccanismi di cura materni delle generazioni successive, e chiederci se la nostra libertà corrisponde solo ai nostri bisogni privilegiati di adulti e non al diritto di chi venendo al mondo in quello stesso tempo non può fare altro che sottostare.
Monica Pepe, MicroMega, 17 novembre 2017 
Questo è il punto in cui il processo si è fermato. Non del tutto. Non per sempre.
Ma quel processo di liberazione e di esaltazione dell'essere umano, che, partendo da Petrarca, passando per Giordano Bruno sino ai filosofi liberali degli ultimi secoli, si sarebbe potuto completare con l'entrata a pieno titolo della donna da pari nell'umano consorzio, si è interrotto, esattamente dove dice Monica Pepe, "ci siamo rinchiuse nuovamente nell'ipocrisia e nei sensi di colpa". Ha prevalso la paura.
Paura di scoprire di non essere se stessi, o perlomeno non solo, ma essere qualcuno o qualcosa che altri hanno deciso che fossimo.
Paura di non sapere più chi siamo, una volta asportare le formazioni parassitose che abbiamo sempre pensato fossero parte essenziale di noi. Confondere una asportazione con una amputazione.
La nostra identità di maschi e di femmine, la nostra identità di figli e di figlie, di mogli e mariti, da buttare all'aria e ricostruire.
Ricostruire. Ricostruire, se non si vuole che la liberazione dell'essere umano coincida con la sua estinzione, "per offrire un percorso evolutivo nell'esistenza", sempre Monica Pepe.
Dicevo all'inizio che sopravvissero le formazioni sociali maschiliste, ma non perché non ce ne siano state di differenti, ma semplicemente perché non hanno avuto discendenza, non hanno lasciato eredi.
I neanderthal pare fossero pacifici e riflessivi; noi sapiens buzzurri attaccabrighe abbiamo finito per farli estinguere, ad eccezione di qualche gene sopravvissuto agli stupri etnici.
Sembra che in quel fatidico 1968 sia stata sfiorata un'epocale catarsi del mito platonico degli ermafroditi. Il mito delle anime gemelle, separate da Zeus per invidia, né più né meno come quello della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre, ci danno conto della misera condizione umana. Uomini e donne, separati alla nascita, l'un contro l'altra armati.
Uniti potremmo conquistare il cielo, ma Monica Pepe ha detto bene anche lì, "avevamo una grande occasione".
Invece ci troviamo imprigionati in questa asimmetria, con questa differenza di potenziale che ci allontana invece che avvicinarci. Esseri incompleti, figure di un teatrino delle ombre a recitare un copione scritto da altri.
Ancora non riesco ad immaginare quanto dovrà essere grande quel tavolo attorno al quale dovremo sederci e per quanto tempo occorrerà restarci, ma mi pare l'unica possibilità di superamento di questa situazione. Ma fino a quando resteremo ancorati a quelle identità di genere che fanno di noi delle comparse nella guerra dell'utero, misoginia maschile e femminile, prostituzione e violenza di genere resteranno tratti tipici della condizione umana.

venerdì 3 novembre 2017

Adelante, Pedro!

Non se ne può più di false ipocrisie; di Montanelli che aveva una schiava in Abissinia e a fine servizio la cedette con una buona dote di sarcasmo a Feltri che la cedette a Belpietro; dell'Asia che rallenta la crescita e apre all'America per non rovinarsi la carriera di tigre di Mompracem; di quelle che era "loro" ciò che secondo lo schiavista abissinico avrebbero avuto difficoltà a piazzare sul mercato; di Silvione che non perde né il vizio né il pelo e gigioneggia giganteggiando come se piovesse, governino bono! che una nuova pietà insegno al mondo africo, presentando loro il suo alterego in vetrochina e acciaio inox; di cesarebattisti, dei cerchiobottisti, dei cani gattisti, dei maschi femministi, degli automobilisti, dei linotipisti, dei gatti neri, dei pessimisti, dei cattivi pensieri; l'anno portato via di chiesa in quattro, in una coperta tenuta ai quatto angoli, la mattina presto, tra i primi discenti della prima messa del mattino; cinquanta, cento, cinquecento, mille; cinquanta, cento, cinquecento, mille; e chi mi crederebbe non mi legge più e chi mi direbbe che no, neanche.

domenica 17 gennaio 2016

Matrimonio plurale, molto modestamente arrivai prima di loro!

Sull'Internazionale dell'undici gennaio 2016 Chiara Lalli presenta il libro di Ronald C. Den Otter dal titolo "In Defense of Plural Marriage" del maggio 2015.
La tesi di fondo è che una società liberale non abbia validi argomenti per limitare il diritto degli individui a legarsi in matrimonio in numero superiore a due. 
Molto modestamente, è una conclusione a cui arrivai già nel giugno del 2009, ma, si sa, a quel tempo facevo parte di una avanguardia culturale.

giovedì 5 giugno 2014

Ragionamenti fatti col culo!

Ciao. È iniziata la campagna elettorale e io uso
qualunque mezzo. Votate L'altra Europa con Tsipras.
Deja vu, l'uso e l'abuso dell'immagine del corpo feminile, la libertà di autodeterminazione di ciascuno e ciascuna [il culo è suo e lo gestisce lei], siamo davvero tutti un poco puttane?
Ma poi perché la qui presente Paola Bacchiddu, dinamica supporter della Lista Tsipras che pubblica questa foto di schiena col dichiarato intento di usare il suo culo per fare campagna elettorale, mi fa tanta simpatia, mentre Annalisa Chirico, che rivendica il suo diritto di sentirsi un poco puttana ma incommensurabilmente libera nell'accavallare le gambe per meglio disporre il suo interlocutore, mi fa ribrezzo?
Probabilmente la risposta sta nel fatto che, come notano alcuni dei suoi commentatori più dolci, la Bacchiddu mostra il culo, ma anche uno scorcio di sorriso che cambia interamente il senso dell'immagine. Potenza dell'autoironia.
Mi fa pensare ad una donna intelligente e tale mi fa apparire anche il suo comportamento.
Simpatia che evolve e acquista spessore nella mia mente sino ad affiancare la sua immagine a quella di un'altra giovane donna, Pippa Bacca, che usò il suo corpo per un'altra campagna promozionale.
In entrambi i casi arrivo alla conclusione che la malizia è talvolta solo negli occhi di chi guarda; che siamo noi che dobbiamo acquisire la capacità di guardare un'immagine per quello che è, a non confondere una proposta con una provocazione.

domenica 7 luglio 2013

A chiamarle puttane si manca di rispetto a quelle vere. Ennesima inutilità lessicale.

L'ispirazione, come spesso accade, mi deriva dalla lettura di un post di Malvino, che ha sempre un occhio di riguardo per Il Foglio di Giuliano Ferrara e per i radicali di Pannella.
Come al solito, è bastato che Berlusconi si sia trovato impelagato in un caso di prostituzione che subito una pletora di intellettuali d'area ha dato corso ad una corrente di pensiero per sdoganarla al grido di "Siamo tutti puttane".
Malvino porta due documenti, uno dei quali è la seguente dichiarazione di tale Annalisa Chirico:


"... quando mi basta accavallare le gambe per disporre meglio il mio interlocutore, io mi sento un po' puttana, ma anche incommensurabilmente libera."
Dico: a me a questo punto necessita una distinzione lessicale, perché una cosa è prostituirsi, "far commercio del proprio corpo, per denaro o per interessi materiali" [Zingarelli 2001] professionalmente, cioè per guadagnarsi da vivere; altro è "accavallare le gambe per disporre meglio il mio interlocutore" nella vita quotidiana e professionale di chi svolge un'altra attività.
I primi, o le prime, continuiamo a chiamarli prostitut* o puttan* e trattarl* col rispetto che si deve a qualunque lavoratore o lavoratrice che offre i suoi servizi a chi li gradisce e ne trae un giusto reddito per il suo sostentamento.
I secondi, o le seconde, chiamiamol* con un altro nome, per rispetto dei primi e delle prime. Potremmo chiamarli "diversamente liber*".

domenica 16 giugno 2013

Intorno alla Convenzione di Istambul e alla violenza di genere.



Sempre le stesse cose.

Ho letto la convenzione [di Istambul]. Un passo avanti per paesi dove vige la sharia, una palude di luoghi comuni e visioni miopi per i paesi occidentali. L'errore di fondo, ma mi rendo conto di essere una voce dissonante, consiste nel confondere la violenza di genere con la violenza sulle donne, che è solo la sua manifestazione più evidente.

Questo equivoco porta a pensare che l'aspetto rilevante sia l'essere femmina delle vittime, da cui l'assurdo concetto di femminicidio, che contesto alla radice, mentre l'elemento scatenante delle violenze di genere è il sentirsi (tenuto a dimostrare di essere) maschio dell'attore.

Nel caso di cronaca da cui prendiamo spunto, non avrebbe fatto alcuna differenza se invece di una giovanetta, il bruto fosse stato respinto da un giovanetto, ma anche da un cavallo, o da una motocicletta. L'uomo che non deve chiedere mai - quanti danni ha fatto quello slogan - ha bisogno di affermarsi sul più debole per sentirsi (riconosciuto come) uomo. Non sottomettere qualcuno gli lascerebbe l'insopportabile sensazione di essere lui sottomesso a tutti, che per alcuni è condizione peggiore della galera e della morte stessa.

La sottomissione della donna, non a caso formalizzata nelle scritture sacre, è il meccanismo che a livello planetario consente di normalizzare il fenomeno in modo che anche l'ultimo dei derelitti si possa sentire maschio, almeno ogni tanto, al peggio violentando una passante o seviziando un animale (sul tenere un cane ce ne sarebbe da dire, in questa chiave).

Anche sull'utilità storica di maschi così concepiti si potrebbe discutere a lungo, ma si arriverebbe comunque alla conclusione che, almeno nel mondo occicentale, rappresenta solo una fastidiosa eredità di cui liberarsi senza rimorsi.

Siamo in grado, come madri e padri di oggi, di allevare uomini e donne esenti da questo tarlo? Questa è la domanda che come padre mi pongo continuamente. Si tratta di buttare alle ortiche buona parte della nostra cultura familiare e collettiva. Dico uomini e donne, non a caso titolo di una fortunata parata di luoghi comuni, perché senza le galline, diceva qualcuna, il gallo non può fare l'uomo.

Il mito eterno della patria e dell'eroe l'aveva già messo in dubbio Guccini. Ma occorrerebbe spingersi molto oltre, rimettendo in discussione il romanticismo e tutta la morale sessuale, passando per questioni spinose come la pedofilia e apparentemente marginali come l'arte, per giungere sino al concetto di proprietà, che fu prealessandrino, come dice Battiato.

In questo senso la Convenzione di Istambul è un pannicello caldo sulla fronte per il malato grave, e una benda sugli occhi per chi si cosidera evoluto, salvo non riuscire a spiegarsi come alcune malepiante, la violenza di genere è una, la prostituzione e le dipendenze sono altre due, continuno a infestare i campi, alla faccia di tutti i veleni che spandiamo sulle messi.

Questo non vuol dire che io non mi auguri che tutto il mondo arrivi al nostro stadio, dove l'argomento è poco più che da talk show, buono giusto per facebook. Quando tutti saranno arrivati, anche per merito di azioni simili, resterà sempre il problema di fondo. Finché ad un essere verrà insegnato a pensare a se stesso in relazione alla sua capacita di sottomettere qualcuno, maschio, femmina o animale che sia, la violenza di genere non sarà eliminata.

domenica 26 maggio 2013

Basta che funzioni. Il macabro tira più del politico.

Il funerale di Don Gallo e la beatificazione di Don Puglisi fanno il pienone, mentre i comizi elettorali fanno flop.
Non lamentiamoci se qualcuno ricomincia a mettrer bombe

sabato 18 maggio 2013

Malvino: Volerlo, deciderlo, farlo

Malvino: Volerlo, deciderlo, farlo

L'autodeterminazione non è in discussione, almeno per me, quindi il discorso potrebbe finire qui.
Quanto agli aspetti medici, io non devo nemmeno fingere di essere profano per dire di ignorare la natura del rischio.
Parto però da un dato che assumo dalla stampa come certo solo ai fini del ragionamento, cioè che la malattia non era in atto, benché certa in futuro.
La prima considerazione che ho fatto e che anche la morte è certa in futuro, quindi tanto varrebbe suicidarsi subito. Anche qui l'autodeterminazione è fatta salva, quindi, nessun problema, a parte l'evidente paradosso.
La seconda considerazione che ho fatto è legata alla professione di A.J. che comporta il fatto che i seni per lei sono ferri del mestiere, quidi la cosa assume anche un valore "pubblico".
Tornando per un attimo alla sfera personale, si è scritto e che la femminilità non è nel seno o nelle ovaie; giusto.
Allora perché la ricostruzione? Se erano diventate un rischio e si è deciso di asportarle preventivamente perchè una donna non è i suoi seni, perché rifarli di silicone?
Ha qualcosa a che vedere con l'immagine allo specchio, la sicurezza in se stessi? Può darsi, allora perché affrettarsi a toglierle.
Una donna ferma e sicura potrebbe anche decidere di mostrarsi piatta nella sua vita di relazione, personale e professionale (?) a meno che con quel corpo non ci lavori e per l'appunto i seni, le labbra, i glutei e via dicendo siano i ferri del mestiere.
Confusamente cerco di spiegare la mia ferma fede nell'autodeterminazione non basta a rimuovere la sensazione di contrarietà generata in me dalla notizia.
Come uomo, come spettatore, mi sento preso in giro, truffato dall'idea che una donna che ha fatto anche della sua fisicità un elemento del suo successo possa, dopo aver legittimamente deciso di asportarsi i seni, sostituirli con due finti - magari migliori - e ripartire come una F1 dopo il cambio gomme.
Al contrario di quanto può a molti venire in mente, non è come le tonnellate di silicone che traboccano dalle pagine dei giornali e dagli schermi; non si tratta di gonfiarsi le tette sino a dimensioni inverosimili per stimolare visivamente, o tattilmente, l'eccitazione maschile - cosa ingenuamente sincera - o aumentarsi di una o due taglie per riempire meglio la scollatura di rotondità e di sguardi rassicuranti, o riportare ad antichi fasti ciò che Newton aveva spinto in basso con gli anni; qui si tratta di altro.
È il passaggio dalla determinazione del sé all'imposizione sugli altri; è la pretesa di decidere per me che la guardo mentre lavora (in fondo il suo lavoro consite in questo) che posso e devo continuare a guardare quel seno e a farmelo piacere senza sindacare sulla sua naturalità o artificialità.
Come se i produttori del mio amatissimo liquore di mirto decidessero di non usare più le profumatissime bacche mediterranee ma un identico aroma chimico, dichiarandolo palesemente negli ingredienti, ma senza cambiare il nome e l'etichetta. Anche qui, come se io non dovessi occuparmi di cosa mi piace, ma limitarmi a confermare che mi piacciono il liquore di mirto e le tette di A.J.
Beh, non è così.

sabato 4 maggio 2013

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lunedì 18 ottobre 2010

Con permesso.

sabato 9 ottobre 2010

Ris-post (a marcoz, gians, e più)

La violenza è solo una.

Violenza è provocare a qualcuno più debole una sofferenza contro la sua volontà, pensando di averne diritto.

Qualsiasi distinzione riferita alla violenza che non parta da questa considerazione rende quella distinzione fittizia, pretestuosa, utile a sostenere a posteriori una linea nota a priori.

La condizione necessaria perché si possa parlare di violenza è che la vittima sia indifesa, che non possa utilmente opporsi alla violenza; la violenza si realizza tra uno consapevole di non potersi opporre e un altro consapevole di poterla esercitare. Altrimenti è un'altra cosa.

L'elemento soggettivo della vittima è il tratto fondamentale, distintivo, della violenza; è a quello che occorre prestare attenzione, più che alle forme in cui viene perpetrata, al percorso che la precede, all'animus di chi la compie. Nel momento in cui un atto o un comportamento è subito come violento da chi lo subisce è realizzata la condizione per cui si possa parlare di violenza, che si perfeziona nella mancanza di accertamento dell'esistenza del consenso. Il disinteresse del violento per i sentimenti della vittima, quando non il piacere sadico di osservarli, sono l'altro elemento soggettivo fondamentale.

I motivi del violento non sono invece rilevanti, in quanto tutti i violenti hanno sempre una buona ragione per esserlo; principalmente il violento è colui che ha subito violenza in precedenza; il marito che picchia la moglie è stato costretto ad assistere alle violenze del padre sulla madre, il serial killer è stato stuprato da bambino da uno zio; il dittatore sanguinario aveva un padre assente e una madre apprensiva della quale non è mai riuscito ad elaborare il lutto, il militare israeliano ha visto morire molti suoi coetanei dilaniati dalle bombe dei kamikaze, il kamikaze ha visto molti suoi familiari inermi morire sotto le bombe israeliane lanciate sui villaggi di povera gente. Tutto questo è noto alla cultura politica da alcuni millenni ed è la motivazione principale del successo di quelle forme di aggregazione che partendo dalle tribù sono arrivate alle istituzioni nazionali e sovranazionali, che fanno della difesa e dell'ordine i loro motivi fondanti nell'opposizione alla legge del più forte. Oggi è lo stato di diritto che affermando la libertà e l'uguaglianza di tutti gli uomini rinnega la violenza e si erge a difesa dei deboli.

Il violento è colui che crea con la forza un temporaneo strappo nella copertura dello stato di diritto, e in quello spazio applica la legge del più forte a danno di uno più debole. Il violento non è quindi nemico della vittima, ma nemico dell'intero consorzio umano, del quale disconosce la legittimità e la stessa ragion d'essere. Non si può quindi guardare alle violenze con distinzioni di sorta, perché esse rappresentano un unico movimento trasversale antagonista della pace e della tranquillità.

Non chiedere mai per chi suona la campana, essa suona per te. (John Donne)